Jego – La saga – La fuga (Seconda parte)

Le cose si complicano

 

Le parole anche se solo sussurrate, rimbombarono nell’ambiente completamente vuoto e buio; la tenue striscia di luce che filtrava da sotto la porta gli permise di orientarsi e dirigersi in quella direzione.

Avvicinò i palmi al battente fino a sfiorarlo, con il respiro trattenuto cercò di percepire una presenza, sintomo che qualcuno dall’altra parte stesse venendo a controllare, i passi avrebbero trasmesso alle pareti e di conseguenza agli stipiti quel minimo di vibrazione che si aspettava di sentire.
Forse l’avevano visto saltare fra i tetti, forse aveva fatto scattare un allarme silenzioso aprendo la botola.
L’unico rumore che sentì erano i tonfi del suo cuore, non percependo nient’altro si permise di sibilare una seconda volta: “Che vengano, sono pronto, nessuna pietà per questi ratti di fogna”.
Dopo un periodo sufficiente a garantirgli un minimo di sicurezza, decise che fosse arrivato il momento di muoversi.

A tentoni cercò la maniglia e con lentezza iniziò ad abbassarla: “Se è chiusa a chiave, dovrò trovare un altro modo per uscire dalla trappola in cui mi sono cacciato” a smentire il suo pensiero la molla scattò rientrando nell’alloggiamento, il battente ormai libero scostatosi dallo stipite creò lo spiraglio attraverso il quale filtrò una sottilissima lama di luce nella quale vide danzare il pulviscolo che aveva sollevato muovendosi.

Per un attimo si distrasse guardando i granelli illuminati, subito dopo si bloccò rimanendo immobile, se i suoi sensi l’avessero tradito e al di là della porta ci fosse stato qualcuno in attesa, quello sarebbe stato il momento in cui probabilmente quel qualcuno si sarebbe gettato contro l’anta lignea utilizzandola per colpirlo e come scudo per sé.
Sempre tenendo la mano sulla maniglia si preparò all’impatto respirando più lentamente possibile e contando i respiri, arrivato a quota cento decise di aprire la porta quel tanto che gli permettesse di sgusciare fuori e non sentirsi più intrappolato.

I cardini non produssero alcun rumore mentre il battente scivolava di lato e finalmente riuscì a varcare la soglia con i sensi all’erta, pronto a scattare come una molla qualora l’eventuale avversario avesse deciso una strategia diversa da quella che si era immaginato.
Si trovò in un corridoio fiocamente illuminato da nude lampadine pendenti dal soffitto e per sua soddisfazione deserto, la scarsa illuminazione produceva chiazze d’ombra alternate a quelle di luce.
Dedusse che si trovava in una dipendenza, un semplice passaggio per accedere al tetto, alcuni rumori provenivano da un’apertura in fondo al corridoio il cui pavimento era di nudo cemento.

Nel branco aveva imparato a muoversi senza fare alcun rumore, comunque i rumori che provenivano dal basso e che aumentavano mentre si avvicinava, avrebbero coperto quello dei suoi passi.
L’acciottolio di vasellame e i piccoli clangori delle pentole gli fece capire di trovarsi sopra le cucine, gli parve strano non avendo visto nessun ordine di finestre appena sotto il tetto mentre si arrampicava e saltava, poi capì: le cucine si trovavano nella parte posteriore dell’edificio e sicuramente le necessarie finestre davano sul retro, magari verso il cortile così che gli effluvi e il vapore della cottura, che gli stavano solleticando le narici, non si diffondessero nelle stanze dove si tenevano gli appuntamenti galanti, evitando il rischio di diffondere l’odore di fritto o di bollito se qualcuno avesse aperto una finestra – ricordandosi il momento appena passato in cui si stava arrampicando – con la conseguente diminuzione di prestazioni.
Ridacchiando fra sé per il pensiero si preparò a esaminare la situazione.

L’apertura dava su una scala con gradini di pietra, a destra delimitata dal muro dell’edificio e a sinistra, fino a circa metà della sua lunghezza dal muro che sosteneva la soletta, da lì fino all’ultimo gradino, una ringhiera con corrimano.
Mantenendosi al riparo della porzione coperta si sdraiò sugli scalini facendo sporgere di poco la testa dall’inizio del vuoto guardando attraverso le sbarre della ringhiera, fidava del fatto che cuochi, inservienti e camerieri fossero troppo occupati per alzare la testa e guardare nel punto in cui si trovava.

Lunghi banchi con ripiani intervallati da piastre di cottura,  i cuochi affettavano, tritavano e mescolavano le pietanze per poi riversare il risultato del loro lavoro nelle pentole e nelle padelle da cui uscivano gli effluvi che avevano colpito il suo olfatto.
Sopra i banchi, a poco più dell’altezza uomo, agganciate a tiranti che partivano dal soffitto, delle pensiline da cui sporgeva una quantità di manici della coltelleria più svariata che in quel momento per la maggior parte, erano in mano agli addetti sudati, brontolanti e indaffarati.
Camerieri entravano da una porta sul fondo del locale, portando i piatti vuoti e sporchi e uscivano con le portate pronte a essere servite.
Osservando le divise dovette ammettere a malincuore l’abilità di Genko: croupier, guardie, inservienti di sala e camerieri avevano tutti la stessa divisa così che non si potesse capire la funzione di un singolo se non per l’evidenza dell’azione che stava compiendo, ma nessuno poteva dire se chi portava un vassoio non avesse un ruolo diverso e magari fosse armato e ancora, si stesse mescolando a quelli che effettivamente stavano servendo per controllare e risolvere un problema con modi non proprio legali.

Compiuto il sopralluogo e utilizzando il bordo dei gradini come punto di appoggio dei palmi, rinculò spingendosi all’indietro fino ad arrivare all’ultimo e trovandosi sdraiato sul pavimento del corridoio da cui era venuto.
Rimase sdraiato cercando di capire se il raschiare degli abiti sulla pietra avesse prodotto qualche reazione nelle persone che aveva appena osservato, non sentendo cambiamenti di sorta si staccò dal pavimento come se dovesse fare una flessione e raccogliendo le gambe sotto si sé, si rimise in piedi con uno scatto fluido.
Per mettere in atto il piano che si stava delineando nella sua mente doveva solo attendere, così si mise a sedere con la schiena appoggiata al muro e si preparò ad avere pazienza mentre perfezionava i particolari delle azioni da compiere ora che aveva appreso ciò di cui poteva disporre.


Montero entrò nell’ufficio senza bussare, Genko che da dietro la scrivania stava chiacchierando con Gamile posizionato nel lato corto di questa, alzò la testa di scatto e pronto a redarguire l’intruso iniziò ad alzarsi, si fermò a metà del gesto vedendo l’espressione dell’uomo minuto che nel frattempo era avanzato nell’ufficio.

“E’ qui!”.

Al gesto di assenso dello spagnolo Gamile si fece cinereo, Genko invece alzandosi completamente iniziò a sorridere: “Molto bene, si è cacciato in una trappola da cui non uscirà!”.

“Se ne è andato signor Genko”.
“Se ne andato?!” il sorriso si trasformò in una smorfia e sulle guance paffute iniziarono ad apparire chiazze rosse mentre un accesso di rabbia rischiava di soffocarlo.
Con toni vicino al falsetto e fulminando Montero con lo sguardo iniziò a inveire: ”Siete degli incapaci, non posso fidarmi di nessuno!” puntò l’indice verso il petto dell’altro: “Tu, proprio tu, uno dei miei migliori, avevo dato ordini precisi e tu…” agitando il dito come a voler trafiggere il suo interlocutore “Tu sei il più incapace di tutti!”.

Senza perdere la calma l’altro rispose: “Si è presentato alla porta principale, gli abbiamo vietato di entrare, non potevamo agire come avremmo voluto io e Frozen, non di fronte a tutti i clienti che ci stavano guardando insospettiti dal tono e dalle parole di quel grosso e stupido animale, conoscete quel bestione, tutto muscoli e niente cervello”.

Ripiombando sulla sedia e recuperata un po’ di calma Genko dovette ammettere che l’altro aveva ragione, poi di nuovo l’ira iniziò a farsi strada: “Allora, perché sei venuto a disturbarmi?” appoggiando entrambi i palmi sul ripiano davanti a sé pronto a rialzarsi per una seconda sfuriata.

“Perché è andato via troppo facilmente” fu la risposta secca.

All’ira si sostituì la comprensione: “Tu dunque pensi che sia venuto in perlustrazione e abbia in mente un colpo di mano?” altro cenno affermativo accompagnato da un lieve sorriso disegnatosi sul volto olivastro.

“Montero, sei in gamba, bravo, non avevo dubbi sulle tue capacità!” l’altro finse di non accorgersi della contraddizione fra le parole appena sentite e l’esplosione di rabbia predcedente, era abituato all’ambigua emotività del suo capo.

Rivolgendosi al fratello: “Gamile, non fare quella faccia, siamo al sicuro qui, siamo protetti, tutti i nostri uomini sono allertati, tranquillo avremo la nostra vendetta, quando verrà, perché verrà ne sono sicuro, troverà pane per i suoi luridi denti e avrò il piacere di scuoiarlo poco a poco” leccandosi le labbra al piacevole pensiero.

Poi rivolgendosi allo sgherro: “Fai controllare tutte le possibili entrate, fate in modo di catturarlo vivo, lo voglio qui, legato e imbavagliato, guai se uno di voi gli torce un capello, lo voglio tutto per me, gli insegnerò cosa vuol dire ostacolarmi, minacciare me e mio fratello!” stropicciandosi le mani al solo pensiero di quello che avrebbe fatto a chi gli aveva causato così tanti guai.

“Sono io il padrone della città, io!”

Con un gesto della mano congedò lo spagnolo: “Vai e fai in fretta, questa cosa deve finire qui e ora!”
Con un lieve inchino del capo l’altro uscì dall’ufficio senza dire una parola.
Intrecciando le mani sul pingue addome si rivolse a Gamile sorridendo: “Tranquillo fratellino, ci aspettano dei bei momenti e soprattutto guadagneremo così tanto da non sapere come spendere i soldi che questi bifolchi continuano a riversare nelle nostre tasche”.
Non si accorse o non volle farlo, dell’espressione incredula del fratello.


Un attimo di silenzio nel locale sottostante lo mise in allarme, ebbe la conferma quando una voce rude apostrofò i lavoratori: “Beh, che c’è? Continuate a lavorare buoni a nulla fannulloni!” facendo riprendere l’attività frenetica interrottasi.

Silenziosamente si alzò, aveva poco tempo, si avvicinò alla porta e il più cautamente possibile la richiuse, poi si appiattì contro il muro in una zona d’ombra fra le due pozze di luce create dalla scarsa illuminazione, il vestito scuro e il cappuccio calato sul viso, sperava, l’avrebbero mimetizzato.

Giunto in cima alla scala, lo scagnozzo si avvicinò alla porta sulla quale aveva puntato la sua attenzione sbuffando per l’incombenza di dover controllare qualcosa che per lui era totalmente inutile, per essere lì l’intruso avrebbe dovuto avere le ali; appena iniziò a spalancare la porta spingendola all’interno con la sinistra, Jego si portò alle sue spalle con il braccio destro cinse il collo dell’uomo così che l’incavo del gomito premesse contro la carotide, il bicipite da una parte e l’avambraccio dall’altra costituivano in una morsa ferrea mentre con la sinistra appoggiata alla nuca gli forzava il capo in avanti.

Dopo il primo momento di sorpresa, l’uomo tentò di reagire cercando di staccare quel braccio che lo stava soffocando, fatica inutile, allungando le braccia all’indietro, cercò di artigliare il viso del suo aggressore, niente da fare, le giugulari bloccate dalla morsa al collo non facevano affluire il sangue al cervello che si spense come una lampadina e in pochissimo tempo il corpo divenne inerte afflosciandosi.

Sostenendo il peso della sua vittima e ansimando per lo sforzo spinse il corpo all’interno del sottotetto adagiandolo bocconi con la faccia sul pavimento, per precauzione appoggiò le mani ai lati della testa della sua vittima e diede uno strattone di lato, il rumore secco delle cervicali che si spezzavano non gli diede nessun piacere.

Tutta l’azione si era svolta in un tempo così breve da non insospettire quelli di sotto, ma ora aveva un grosso problema: presto qualcuno si sarebbe accorto della sparizione e avrebbe capito che era nel palazzo, “Addio alla sorpresa” pensò con rammarico, ma durò poco; ora doveva escogitare qualcosa che gli permettesse di togliersi da lì, con la cucina affollata di gente non sarebbe stato per niente facile, ma non era così preoccupante da bloccarlo.

Il piano congegnato all’inizio andava cambiato in fretta, la cosa più importante era avere più spazio e tempo a disposizione per giungere al suo scopo, era uscito da situazioni più difficili affidandosi all’improvvisazione, qualità che lo aveva sempre distinto nel branco che per contro osservava, pianificava e attaccava quando tutte le premesse fossero soddisfatte; Crol più di una volta l’aveva definito un cucciolo scapestrato, avventato e insolente ma senza ringhiare e con una punta di affetto per quell’umano che aveva accolto e che gli dimostrava una devozione ben oltre la semplice amicizia.

“Sicuramente la mia posizione sarà scoperta” la mancanza dell’uomo che era stato mandato a controllare il tetto avrebbe fatto capire ai suoi avversari dove si trovava.
Iniziò a pensare alacremente, si era cacciato in una situazione che aveva poche vie di uscita, con un’alzata di spalle si disse: “Beh, facciamo in modo di portarne il più possibile con me” fu in quel momento che gli tornarono in mente le sagge parole di Crol: “Pensa per il meglio, ma preparati al peggio”.

Al pensiero dell’amico scomparso un leggero sorriso affettuoso si disegnò sul suo viso, tornò a concentrarsi enumerando mentalmente gli aspetti della sua situazione: “Dunque, sono intrappolato all’ultimo piano, c’è un uomo morto nel sottotetto, la sua sparizione indicherà la mia posizione e sotto di me una quantità considerevole di persone che, pur non essendo guardaspalle, possono scatenare un trambusto tale da far accorrere tutto il palazzo e…” s’interruppe folgorato da un’idea. Di nuovo tornò a sorridere: aveva trovato il modo di levarsi dagli impicci, rischioso certo, ma non era lì per una visita di cortesia.

 
…precedente

continua…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.