Jego – La saga – La fuga (Prima parte)

La fuga di chi?

 

 

Genko e Gamile, esterrefatti, si alzarono precipitosamente dalle loro poltrone e fecero posto ai due.
Genko si rivolse al mugolante: “Parla chiaro, non capisco!”
mentre l’altro gli mostrava la lingua mozzata e ancora un po’ sanguinante, aiutò il compagno che brancolava con le braccia tese in avanti, a sedersi sulla poltrona in precedenza occupata da Gamile.

Genko sbarrò ancora di più gli occhi e poi con un moto di rabbia si rivolse all’uomo ancora in piedi che, ritratta la lingua, lo guardava con occhi da cane bastonato: “Vai a farti medicare o a farti fare qualche accidente per fermare quel sangue, non vorrai sporcarmi il tappeto” indicando la porta imperiosamente.
L’altro, mesto, uscì con la testa abbassata senza più emettere nessun suono gutturale.
Preso di nuovo posto dietro la scrivania, Genko interpellò l’uomo di fronte a lui: “Allora Frank, puoi dirmi cosa è successo o hanno mozzato la lingua anche a te?”

Alzando la testa in direzione della voce Frank iniziò: “Abbiamo avuto un contrattempo all’università, c’era un uomo, ma sembrava più un animale da come si muoveva, non ce lo aspettavamo, ci ha attaccati, ci ha preso di sorpresa, con una astuzia e una forza mai viste prima in un essere che in un primo momento sembra innocuo.”
“Vuoi dire che sembra un ragazzo?”
“Si signor Genko, un diciottenne forse appena più robusto dei ragazzi di quell’età.”
“Dimmi gli hai visto gli occhi?”
“Si signor Genko, grigi e freddi che sembrano due lame d’acciaio.”
“Ti ha detto qualcosa?”
“Che presto verrà a farle visita.”

A quest’ultima frase i due fratelli impallidirono contemporaneamente e guardandosi negli occhi esclamarono all’unisono: “E’ tornato!”
Frank, protendendo il volto in avanti cercando di spalancare gli occhi ciechi domandò: ”Chi è tornato signor Genko, chi è quell’uomo?”
“Hai ragione a dire che sembra un animale, quello è una belva feroce, una belva da abbattere a tutti i costi”
Gamile a quel punto intervenne: “C’era per caso un lupo con lui?”
Ruotando il capo alla nuova domanda e scuotendolo vigorosamente rispose: “No signor Gamile, era solo, ma ora pensandoci mi è sembrato lui un lupo, un lupo che ha agito senza esprimere nessuna emozione, con una ferocia da far rabbrividire.”
Di nuovo i due fratelli si guardarono e fu Genko a dare voce ai loro pensieri: “E’ lui, non c’è ombra di dubbio.”
“Ora che facciamo?” la voce di Gamile era di una nota più alta del normale e incrinata da un leggero tremito.
Genko seccamente rispose: “Niente, cosa dobbiamo fare se non aspettare proteggendoci con più uomini possibile? Nel frattempo…” rivolto a Frank “Ti farò accompagnare dove potrai riposare, i dottori sapranno cosa fare per gli occhi e ti ingesseranno la caviglia” alzò il citofono latrando un ordine, immediatamente sulla porta apparvero due uomini che aiutarono Frank ad alzarsi dalla poltrona e sostenendolo lo accompagnarono fuori dall’ufficio.

 


 

“Ora che pensate di fare?” domandò il portiere.
“Niente per il momento, aspettare” rispose Jego.
“Ma… se quelli tornano?”
“Non torneranno, se ne staranno rinchiusi come ratti quali sono, si prepareranno, cercheranno di erigere le migliori difese aspettando che mi faccia vivo con l’illusione di uccidermi” il tono era distaccato e indifferente.
“Sono in tanti e voi siete solo, è molto probabile che ci riescano” la preoccupazione traspariva dalla voce incerta.
Un’alzata di spalle accompagnò la risposta: “Prima o poi tutti devono morire e nessuno sa quale sarà la sua ora.”
“Sì certo, ma andarsela a cercare…” ancora più preoccupato.
“Vi ringrazio per la vostra apprensione, ma credetemi, non è così facile e… più alto il numero dei nemici, più grande il valore.”
“La vita è vostra, cionondimeno, anche se avete dimostrato ehm… un’irruenza insolita per un uomo, rischierete grosso.”
Un sorriso accolse queste ultime parole: “Il rischio è il sale della vita” con un’altra alzata di spalle e fendendo l’aria con la mano di taglio Jego dichiarò chiusa la discussione.

 


 

Tutti gli sgherri di Genko erano in stato di allerta.
Il loro capo aveva promesso ricompense e favori a chi fosse stato in grado di fermare Jego.
“Non lo voglio morto, lo voglio vivo, gli voglio togliere la pelle a strisce con le mie mani, voglio sentirlo urlare dal dolore, voglio che mi implori di porre fine alla sua miserabile vita!”
Un discorso pronunciato con il viso paonazzo di collera e spruzzando saliva a ogni parola, un’ira che i suoi uomini non avevano mai visto, da una parte intimoriti dalla descrizione del pericolo e dall’altra imbaldanziti e speranzosi di assolvere il compito assegnato per la conseguente ricompensa.

 


 

Le luci sfavillavano nella sala piena di gente, chi giocava ai tavoli della roulette, del baccarat, del poker, chi invece si intratteneva con compiacenti donnine, per poi salire ai piani superiori nelle camere per le quali oltre all’onorario convenuto per l’occasionale compagnia, si doveva versare un’ulteriore somma, alleggerendo così le tasche dei clienti e impinguando la cassa dei malfattori dando loro la sicurezza di essere i padroni incontrastati della città.

A fare da guardia all’ingresso erano posizionati Frozen e Montero, i due più pericolosi uomini di Genko.
Il primo grande e grosso, monolitico, pura forza bruta, il secondo sottile, quasi minuto, il viso appuntito lo faceva assomigliare a una faina, lo sguardo cattivo qualificava il pericolo che rappresentava.
Jego varcò la soglia e due gli si fecero incontro.
“Fuori di qui!” per quanto tenesse bassa la voce per non impensierire gli ospiti, l’esclamazione di Frozen fu sentita da almeno metà degli astanti, alcuni di loro ruotarono il capo con apprensione temendo una retata della polizia.
Montero, lanciando un’occhiata di fuoco a Jego si rivolse all’omone: “Sei proprio una bestia, vuoi spaventare i clienti con quella tua voce da cavernicolo?” poi rivolto a Jego sibilando a denti stretti: “Che ci fai qui? Non sei gradito, ma se sei in cerca di guai, qui li troverai e belli grossi anche.”
Sollevando i palmi e sorridendo innocentemente Jego sclamò: “Ragazzi, ragazzi, vi sembra questo il modo di accogliere un cliente?”
“Cliente un accidente!” rispose il piccolo uomo, per poi proseguire: “Si resta, ora chiamo un paio di amici e ti facciamo una bella accoglienza, quella che ti meriti.”
“Uh che modi villani, va bene, va bene me ne vado” girandosi per tornare a imboccare l’uscita, appena varcata la soglia si girò verso i due e beffardamente chiese: “Come va l’udito Frozen? A te Montero quando piove il braccio si fa sentire?” Ciò detto scomparve nel buio del vicolo prima che i due potessero replicare, ridacchiando quando il suo udito colse gli improperi che gli lanciarono contro a denti stretti.

Percorse tutto il vicolo, ma invece di continuare sulla strada principale si mise a cercare l’entrata posteriore del locale imboccando il vicolo perpendicolare a quello in cui si trovava, era sicuro che ci fosse l’area adibita alla consegna delle merci di lusso vendute a prezzi triplicati, se non di più, agli ingenui frequentatori.
Protetto dall’ombra e senza fare nessun rumore si avvicinò al cancello che chiudeva il cortile destinato allo scarico; accucciandosi sporse di poco la testa dall’angolo destro vicino al cardine inferiore, come aveva supposto anche questa entrata era presidiata e da ben quattro uomini; sostavano sulla striscia di cemento che correva per tutta la parete e alla quale si accedeva lateralmente tramite tre gradini, la luce di cinque lampade appese alla tettoia che si protendeva oltre il bordo della piattaforma illuminava tutta l’area.
L’atteggiamento dei quattro era indolente, erano annoiati per l’inattività, forse minimizzando il pericolo descritto erano disattenti e rilassati, due di essi stavano fumando appoggiati al muro scambiandosi qualche parola mentre gli altri due sostavano ai bordi opposti della piattaforma, non prestavano particolare attenzione anzi sembravano rassegnati a dover svolgere un noioso turno di guardia.
Ritirata la testa Jego si sedette con la schiena appoggiata al muro e iniziò a pensare a un piano per introdursi nello stabile.

Tornando a sbirciare vide che il fianco dell’edificio presentava alcune finestre al primo e secondo piano probabilmente erano quelle corrispondenti alle camere in cui le donne ricevevano i loro clienti.
Il vicolo era largo approssimativamente sei metri, separava l’edificio del locale dal suo dirimpettaio di tre piani.
Entrambi gli edifici avevano il tetto piatto a terrazza.
Sempre protetto dall’ombra si avvicinò all’edificio dall’altra parte del vicolo, il muro era di mattoni a vista e a quell’ora nessuna luce filtrava dalle finestre, alzando gli occhi disse a se stesso: “Forza, ti sei arrampicato su pareti più lisce” poi l’occhio individuò il tubo di scolo della grondaia, i supporti che lo tenevano ancorato al muro potevano essere un valido aiuto.

Iniziò ad arrampicarsi mantenendo alla sua destra il tubo, esplorava con le mani la parete fino a trovare le fessure fra mattoni in parte sgretolati in cui inserire la punta delle dita o le sporgenze di quelli posati malamente durante la costruzione, a ogni fessura o sporgenza utilizzava meno della metà dei polpastrelli per issarsi con la forza delle sole braccia, non poteva utilizzare i piedi per aiutarsi: la flessione delle ginocchia lo avrebbe allontanato dalla parete; quando non riusciva a trovare asperità o fessure a cui aggrapparsi utilizzava i provvidenziali sostegni del tubo.

Giunto all’altezza del secondo piano, il rumore di una finestra aperta alle sue spalle lo fece immobilizzare e si appiattì il più possibile contro il muro, il cliente o la sua occasionale compagna potevano essersi affacciati; dalla posizione in cui si trovava non poteva nemmeno ruotare il capo per controllare, benché fosse abbronzato, la macchia più chiara del suo viso sarebbe spiccata contro lo scuro dei mattoni, l’unica soluzione era di rimanere con il naso schiacciato contro la superficie senza muovere un muscolo, fidando che gli abiti scuri, il buio della notte e la vicinanza del tubo contribuissero a mimetizzarlo.
Le dita erano indolenzite, i muscoli delle braccia tremavano leggermente per sostenere il peso del suo corpo, si disse: “Che idea balorda, un’altra volta pensaci Jego prima di avventurarti in queste acrobazie, ora rischi di finire spiaccicato sul selciato come una frittella.”

Quando gli sembrò di non riuscire più a sopportare lo sforzo, cautamente e molto lentamente girò il capo appoggiando l’orecchio sinistro al muro e cercando di individuare con la vista periferica dell’occhio destro se ci fosse qualcuno affacciato.
Colse un riquadro illuminato ma nessuna figura era inquadrata dalla luce proveniente dall’interno della camera.
Con quelle che gli sembrarono le ultime forze a disposizione terminò la scalata della parte che lo separava dal tetto, si trovò ansante e tremante oltre il parapetto che correva per tutto il perimetro della terrazza.
“Sono un uomo, non un ragno, chi me le fa fare certe cose lo so lo io” borbottandosi contro si sedette distendendo le gambe in avanti e appoggiando la schiena al parapetto, stette immobile in quella posizione finché il tremore che lo scuoteva cessò e il fiato tornò a essere regolare.

Alzatosi in piedi valutò la situazione, dall’alto la distanza che lo separava dall’altro tetto gli sembrò enorme, in aggiunta la poca luce delle stelle e del quarto di luna certo non aiutava a rendere sicura la valutazione di quanta forza avrebbe dovuto mettere nel salto, unica nota positiva era che il tetto sul quale voleva atterrare fosse più in basso, questo forniva una parziale sicurezza per pensare di riuscire nell’impresa.
Deciso si avviò dalla parte opposta del tetto, iniziò a correre con tutta la potenza che le gambe gli permettevano, arrivato in prossimità della balaustra spiccò un leggero salto e usando il bordo come una sorta di trampolino si dette lo slancio, l’aria della notte gli schiaffeggiò il viso nel volo che terminò poco più in là del parapetto che circondava l’altro tetto, atterrò sulle punte dei piedi ma lo slancio lo proiettò in avanti facendogli perdere l’equilibrio, per non prendere una solenne facciata mentre cadeva ruotò il busto a sinistra picchiando dolorosamente la scapola destra sulle pietre, con la capriola che ne seguì si ritrovò in piedi, ma a causa dell’inerzia non ancora spentasi fece quattro passi barcollanti finché, madido di sudore per la tensione, finalmente si fermò stabilmente sulle gambe, inspirò profondamente per rallentare i battiti del cuore e soddisfatto disse a se stesso: “Anche questa è fatta, ora pensiamo al resto” iniziando a esplorare il tetto per trovare una porta o una botola che gli permettessero di accedere all’interno.

Quasi al centro del tetto piatto e spoglio individuò un unico riquadro più scuro che poteva essere il coperchio di una botola si avvicinò borbottando con voce inaudibile: “Se è chiusa dall’interno e con un lucchetto sono saltato per niente e per di più sono intrappolato, ma che bella pensata!”
Il quadrato di legno era rialzato di qualche centimetro rispetto al piano, era lo spazio destinato ai cardini, intuì che il coperchio si apriva verso l’esterno e non viceversa, iniziò a esplorare il bordo, infilò le dita nella fessura esplorando sotto i tre lati per tutta la loro lunghezza fino a trovare il dente di fermo, armeggiando con le dita di una mano sulla punta del gancio e premendo con l’altra sul bordo riuscì a spingere il fermo fuori dall’anello a cui era agganciato, il tintinno prodotto dallo sgancio gli sembrò un boato nel silenzio della notte, si immobilizzò con le orecchie tese, dopo un periodo di tempo che gli parve ragionevole e in cui aveva trattenuto il respiro per udire eventuali passi di qualcuno attirato dal rumore sospetto, lentamente alzò il coperchio fino a ribaltarlo completamente; a bocconi iniziò a esplorare lo spazio vuoto e buio sottostante fino a trovare il primo piolo di una scala, si mise seduto e lasciò penzolare le gambe appoggiando i piedi sul piolo individuato, reggendosi al bordo iniziò a scendere non prima di essersi tirato dietro il coperchio che riuscì a chiudere sorreggendolo con un braccio sollevato sopra la testa accompagnandolo mentre scendeva fino a quando la discesa fu pari alla sua altezza, a tentoni cercò il gancio e lo riportò nella posizione di chiusura, il tutto in perfetto silenzio.
Al termine della scala si concesse ancora una attimo di attesa cercando di percepire rumori sospetti.
Quando fu sicuro che la sua entrata non era stata notata digrignando i denti sibilò: “Aspettatemi, fra poco inizia lo spettacolo!”

 …precedente

continua…

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