Jego – La saga – Il futuro è dietro l’angolo

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I prepotenti trovano sempre
pane per i loro denti
più duro di quello che si aspettano

 

“Ehi, ma dove vai?!?” non era una richiesta, era un ordine.
“Torno a casa, a dire ai tuoi genitori di lasciar cadere le speranze per il tuo ritorno” in fondo preferiva accontentare lei piuttosto che i suoi genitori; la fiamma del ribelle era ancora troppo vivida in lui, non poteva non ascoltarla.
“Ma come, senza dirmi nient’altro, senza raccontarmi della tua vita, senza voler sapere qualcosa di più di me?” la delusione traspariva dalla sua voce e Jego la vide come non l’aveva vista mai: fragile, indifesa, un po’ sperduta, con la voglia di aggrapparsi a una certezza.
“Ma… mi hai già detto tutto, sei felice, sei su una nuvola, ami e sei amata e…” non poté proseguire perché una voce maschile dietro lui lo interpellò con tono bellicoso: “Ehi, che vuoi dalla mia ragazza?”
La sua natura di mezzo lupo lo fece reagire immediatamente e con un ringhio si girò pronto alla lotta, una in più di tutte quelle che nel branco aveva sostenuto, magari solo per un pezzo di carne o per il posto migliore su una roccia.
“Calma, calma!” la voce di lei aveva riacquistato l’energia di sempre, “Alfred, non è un importuno, è il mio amico Jego” con queste parole si avvicinò al vecchio amico e gli cinse la schiena con un braccio a sottolineare la veridicità delle sue affermazioni.
Il contatto del braccio e di quella manina calda ebbe il potere di calmarlo e di fargli rilassare i muscoli già pronti a scattare.
Alfred, che alla sua reazione era indietreggiato di un passo, si tranquillizzò e superando la distanza che li divideva porse la destra dicendo: “Ah, allora nessun problema, gli amici di Nora sono miei amici!”.
Con un pizzico di malignità, Jego strinse la mano tesa con più forza del necessario e sorrise vendendo l’altro trasalire: “Ehi, che stretta d’acciaio!” a quelle parole Nora reagì con veemenza: “Jego!!”.
Con l’aria più innocente di questo mondo: “Sì… dimmi?”.
“Smettila, non hai bisogno di dimostrare niente!” detto questo si avvicinò al fidanzato con aria protettiva chiedendogli: “Ti ha fatto male quel bruto?” ora sì che riconosceva Nora e questo lo fece sorridere mentre lei gli faceva una linguaccia.
“Ma no, figurati” rispose Alfred massaggiandosi la mano “Solo che non me l’aspettavo, hai un amico bello forzuto”.
“Ma questo non m’impedirà di dargli un bel pugno!” avvicinandosi a Jego che, sentendo le sue parole, si era messo in posa di difesa, ma ridendo più per i ricordi delle baruffe con lei di quando erano fanciulli, piuttosto che per aver preso sul serio la minaccia.
“Cosa ridi, screanzato!” ma sorrideva anche lei e il momento di imbarazzo si dileguò come neve al sole.
“Propongo un armistizio” disse Alfred sorridente “Che ne dici se lo invitiamo a cena e magari a passare la notte da noi? Da quello che capisco avrete tante cose da raccontarvi e a me piacerebbe ascoltarvi per sapere un po’ più di te, mio caro demonietto, e di lui che mi sembra una persona interessante, anche se, devo dire la verità, lo trovo un po’ inquietante.”
“Ma se sono una persona così tranquilla…” Jego cercava di nascondere l’imbarazzo per l’invito a sorpresa, non era abituato a questo tipo di cortesia e la sua tensione si era stemperata nello stupore che un altro, dopo pochi minuti, lo accettasse con un atteggiamento completamente contrario a quelli che finora aveva incontrato.
“Sì… sì, tranquillo come un ciclone!” fu il commento sarcastico di Nora che concluse: “E’ deciso, vieni a cena e a dormire da noi” confermando a Jego il temperamento focoso della sua amica, di cui per altro non aveva mai dubitato se non per il piccolo momento appena vissuto e replicò: “Senti chi parla!” ottenendo l’assenso e l’approvazione di Alfred; il tutto si concluse con un: “Umpf… uomini! Sempre pronti a darsi man forte approfittando biecamente del sesso debole!”
“Debole?” esclamarono all’unisono i due uomini scatenando lampi d’ira negli occhi di smeraldo, ma la risata generale che seguì sancì una precisa condizione: pace, amicizia e tranquillità avevano vinto.
La casa in cui vivevano i due era al quarto piano, l’ultimo di un piccolo condominio.

Casa
L’appartamento, pur essendo di medie dimensioni, dava a Jego un senso di claustrofobia: la sua casa in cima alla collina della Terra di Mezzo era appena un po’ più grande, ma non era questo che lo soffocava, bensì era la mancanza di spazi aperti che gli provocava quel senso di affanno.
La coppia, soprattutto Nora, interpretarono la sua incertezza come una critica e quest’ultima, preoccupata chiese: “Che c’è, non ti piace la nostra casa?”
“No, anzi è molto bella, ma io al chiuso…”.
Il sollievo le apparve sul viso e i suoi occhi tornarono sorridenti: “Ah già, abituato come sei a scorrazzare per praterie e montagne, qui ti sembrerà di essere in gabbia e a te le gabbie…”

“Non mi piacciono per niente” concluse lui aggiungendo: “Ma non sarà certo questo a fermarmi!”
“Quando mai! Comunque se ti senti soffocare, dopo cena se vuoi puoi startene sul tetto, è piatto e noi molte volte ci passiamo del tempo a guardare le stelle e la luna; so quanto ti è cara, ti ho sentito sai? Nei pleniluni intonavi un canto strano, là nella Terra di Mezzo, un canto che non ho mai capito, pur non conoscendone la ragione mi ha sempre riempito l’anima e il cuore”.
“E’ il mio saluto a Crol” fu la laconica risposta.
Alfred che aveva seguito attento il dialogo esclamò, anche con una lieve nota di gelosia nella voce: “Spero che tu non voglia esibirti questa sera perché sai, i vicini…” fu interrotto bruscamente da Nora che lo redarguì: “Alfred, ma cosa stai dicendo!?!” “Cara, mi riferisco alla signora Lentile, qua a fianco, sai bene come voglia che ci sia il silenzio alla sera quando si dedica alle sue letture preferite, più di una volta è venuta a bussare perché ridevamo troppo forte…” “Già, quella vecchiaccia!” con i ben noti lampi negli occhi.
“Prometto che non farò niente di simile, me ne starò in silenzio sotto la coperta di stelle, non disturberò nessuno” fu la risposta di Jego, chiudendo così una discussione che rischiava di finire in un battibecco.
La cena fu allegra e le pietanze più succulente furono il chiacchiericcio dei due che si raccontavano la loro fanciullezza con una serie di botta e risposta che iniziavano tutte con “E ti ricordi di quella volta che…” e terminavano con l’immancabile risata.
Alfred deliziato seguiva lo scambio di battute e di racconti che gli permettevano di conoscere un po’ di più la sua amata e di delineare meglio la figura di quello che gli sembrava uno snello diciottenne, ma dotato di una forza così poderosa tanto da emanare un’aura che si percepiva come qualcosa di non completamente umano, si sarebbe detto animale.
La sensazione che provava lo impensieriva non poco e inconsciamente, forse, si accarezzava la mano destra, quella mano che aveva avuto il modo di sperimentare di che pasta fosse fatto il loro ospite.
La serie di ricordi e le battute scambiate con Nora, avevano permesso a Jego di non dir nulla di sé, di non raccontare la sua vita con il branco, né della solitudine in cui viveva nella sua terra.
Finita la cena, chiese da quale parte fosse possibile raggiungere il tetto e quando gli fu indicata la scala esterna, ci si diresse accomiatandosi con un: “Torno fra un paio d’ore, se siete già a dormire, io dormirò qui sul pavimento”.
“Non sia mai!” fu la risposta veemente di lei “Ti preparerò il divano, e tu dormirai lì!”

“Agli ordini, signora!” fu la risposta divertita.
Quando Jego fu uscito, i due si misero a riordinare scambiandosi occhiate e sorrisi, l’una per l’evento piacevole di aver incontrato un vecchio amico e ispiratore, l’altro per aver acquisito un po’ più di sicurezza dei sentimenti di lei, certezza che nell’incontro del mattino aveva vacillato un po’.
Si stavano apprestando a prepararsi per la notte quando sentirono bussare, si guardarono meravigliati e Alfred concretizzò con una domanda il pensiero venuto a entrambi: “Possibile che siano già passate due ore, o si è già stancato di stare sul tetto?” ciò detto aprì la porta d’ingresso pronto a rivolgere la stessa domanda all’ospite.
Il vano della porta era occupato da un uomo che per la sua corporatura sembrava un armadio: massiccio, monolitico, con le mani che sembravano prosciutti e con un viso tutt’altro che rassicurante, reso ancor di più tale da una cicatrice che lo attraversava dalla fronte alla mascella, passando fra gli occhi e dando al suo naso un aspetto definibile macabramente buffo.

UNO
Con una manata spinse Alfred al centro della stanza ed entrò per lasciar passare altri due individui: il primo vestito elegantemente, di statura più bassa del normale, con un accentuato inizio di pinguedine e il viso florido e abbronzato che solo certe categorie posseggono: i ricchi e i gangster.

TRE_1
A chiudere la fila un personaggio che a prima vista dava l’impressione di un furetto o di una faina, il viso appuntito, i capelli arruffati, gli occhi mobilissimi guardinghi e le movenze che ricordavano quelle di un ballerino, sembrava scivolare – quasi fluire – sul pavimento anziché camminare.

DUE
“Ehi, ma che…” “Tu non parli, parla lui!” intimò l’omaccione indicando il ben vestito.
“Calma Frozen, siamo qui da amici, non c’è nessun bisogno di essere così brutali e tu…” rivolgendosi alla faina “Controlla che non ci sia nessun altro in casa”.
Quando l’altro si fu allontanato, si rivolse ad Alfred con tono suadente: “Allora mio caro Alfred, presentami alla tua bella, non essere scortese”.
Fu Nora a rispondere rivolgendosi però al suo amato: “Alfred, ma tu conosci questi individui e lei…” rivolgendosi all’altro uomo che stava ispezionando la casa “Venga fuori dalla mia camera da letto, io non le ho dato il permesso di frugare in casa mia!”
“Uh, che caratterino!” fu il commento ironico.
“Vede signora” “Signorina!” “E sia signorina, io e Alfred siamo vecchi amici e tutto ciò che è suo, diventa immancabilmente mio, vero invertebrato?”
“Tu, gli permetti di insultarti così, ma fai qualcosa, no!?!”, Nora stava montando su tutte le furie dimostrando ancora una volta l’aspetto battagliero del suo carattere e la mancanza di paura di fronte alle intimidazioni.
L’uomo che aveva abbassato gli occhi scrutandosi i piedi cercò di dire: “Vedi, cara io…” ma fu interrotto da: “Non può signorina, non Alfred, lui mi deve troppo, a proposito, scusi la mia scortesia, non mi sono ancora presentato, io sono Genko, il miglior allibratore e biscazziere della città e il suo amico qui…” indicando un Alfred sempre più imbarazzato “Mi deve un sacco di soldi, per via del suo vizietto…”

“Vizietto?!?” Nora sgranò gli occhi e puntandoli con fare accusatorio sul compagno.
“Eh, sì vizietto! Ma come Alfred! Non l’hai messa al corrente delle tue scommesse e delle ore passate al tavolo da gioco? Sei proprio un cattivaccio” l’ironia stillava acido dalle parole pronunciate.
“Ora mi sono stancato di aspettare e sono venuto a riscuotere il mio credito, ma essendo un uomo pacifico e poco incline alla violenza, mi sono fatto accompagnare dai miei due impiegati più fidati che, purtroppo, non perseguono i miei stessi principi e sono, diciamo, emotivi, molto emotivi, oserei dire sanguigni. Frozen, quel signore grande e grosso, per esempio è piuttosto maldestro, con un esagerato senso del dovere, per convincere uno dei miei debitori più recalcitranti gli ha pezzato il collo, privandomi dell’entrata che mi spettava e così è rimasto senza paga per due anni per ripagarmi, ahimè solo in parte, della perdita subita, ma sono sicuro che per soddisfare la sua, diciamo, energia, non esisterebbe a rinunciare ad altri anni di paga pur di farmi contento, vero Frozen?” rivolgendosi all’omone che assentì con un grugnito.
“L’altro, il signor Montero, compensa la sua fragile struttura, se confrontata con quella di Frozen, con un arte che io considero sublime: è un cesellatore e come strumento usa un affilatissimo coltello, ereditato da suo padre che a sua volta lo aveva ereditato dal proprio, tutti esercitanti la stessa professione, mantenendo viva la tradizione di famiglia che penso sfiori l’arte. Sapete, l’ho visto con questi occhi incidere sulla faccia di un nostro impiegato, che si è comportato in modo non proprio confacente allo spirito della mia azienda, le regole che costui avrebbe dovuto seguire e vi garantisco che ora quell’individuo, così ben decorato, scusate la ripetizione, ad arte, è diventato uno dei miei più servizievoli collaboratori.
Il tono glaciale di quelle frasi che, pur essendo dense di vocaboli forbiti e all’apparenza innocenti, contenevano terribili minacce, fece ammutolire i due che intravidero quali sarebbero state le conseguenze di una disobbedienza.
“Io non ho tutti i soldi che ti devo” fu la debole protesta di Alfred.
“Questo mi dispiace veramente, ma essendo un uomo pacifico ti propongo un’alternativa, deludendo così i miei impiegati che già si aspettavano di potermi dimostrare la loro assoluta fedeltà, se accetti avranno perso solo del tempo ad accompagnarmi, cosa che per altro mi permette di girare indisturbato anche di notte”.
“Quale sarebbe quest’alternativa?” una debole speranza si percepiva nella voce di Alfred.
“Un uomo del tuo genio non ci arriva? Mi deludi vecchio mio, ti facevo più perspicace! Semplice: è sufficiente che tu mi metta al corrente dei risultati che state ottenendo nel laboratorio di fisica dell’università presso la quale sei impiegato; so da fonti certe che avete raggiunto un buon livello di controllo sul materiale radioattivo scoperto negli ultimo scavi, si dice che la sua potenza sia un milione di volte quella della dinamite e se tu mi dessi i risultati, cosicché una delle mie molteplici attività potesse trattare quel materiale in modo adeguato, io disporrei di armi tali che nessuno, proprio nessuno, oserebbe contrapporsi a me!” una luce di follia brillava negli occhi dell’uomo.
“Questo mai!” fu la risposta pregna di dignità “Non farò mai una cosa simile, non permetterò che quegli studi cadano in mani sbagliate, noi stiamo studiando per produrre qualcosa che abbia degli scopi benefici a favore dell’umanità, non per aumentare la violenza e soddisfare la megalomania di un folle come te!”
La frase detta tutta d’un fiato e con l’ardore di chi, nonostante le proprie debolezze, crede nella giustizia e nell’equità fece sgranare ancora di più gli occhi di Nora, il cui sguardo accusatore si trasformò immediatamente in adorante e di orgoglio, ora sapeva di aver fatto la scelta giusta.
Con falso rammarico l’altro rispose: “Mi dispiace veramente che questa sia la tua posizione, mi offende profondamente che tu pensi questo, d’altronde è il destino dei benefattori come me essere incompresi; i malfattori che popolano le nostre strade sparirebbero, li farei diventare i miei solerti impiegati e la gente come te, pagando un piccolo obolo s’intende, sarebbe al sicuro nelle proprie case e potrebbe frequentare le mie case da gioco senza la paura di quelle fastidiose incursioni della polizia che ce l’ha con me solo perché sono in grado di procurare loro un sano divertimento”.
“Già, svuotandogli le tasche con i tuoi bari o con le tue donnine!” fu il sarcastico commento di Alfred.
“Impiegati, solo impiegati di un’onesta impresa commerciale e a proposito di impiegati… ragazzi vediamo di condurre queste persone sulla via dell’umiltà e della comprensione!”
Mentre l’armadio a due ante si spostava dallo stipite al quale era appoggiato per dirigersi verso di loro, i due indietreggiarono, fino ad avere le spalle contro la parete, non potendo rifugiarsi nell’altra camera il cui ingresso era bloccato dall’uomo con il viso da faina che, leccandosi le labbra, aveva estratto il coltello.
La porta di spalancò e un ringhio più che una voce esclamò: “Ehi che succede qui?” a quel suono la scena per un attimo sembrò congelarsi, ma l’attimo di sospensione durò pochissimo, i tre voltatisi all’unisono fissarono Jego, quasi increduli che qualcuno potesse disturbarli. Genko, il primo a riaversi dalla sorpresa ordinò: “Liberatemi di quel moscerino!” la voce però aveva perso la pacatezza e si percepiva una incrinatura d’isteria nell’ordine impartito.

 

Affondata nella sua poltrona la signora Lentile, si stava gustando le ultime pagine del romanzo scritto dal suo autore preferito.

Lentile
Amava quei momenti di tranquillità, amava la calda luce della lampada che le permetteva di leggere, amava alzare gli occhi e vedere attraverso i vetri l’oscurità della notte che, unita al silenzio circostante da lei ritenuto un suo preciso diritto, le davano un senso di sicurezza e le infondevano un dolce serenità.
Purtroppo quel momento magico fu interrotto da un trapestio proveniente dall’appartamento accanto, infastidita pensò che non si meritava dei vicini così molesti e irrispettosi, le era inconcepibile che qualcuno a quest’ora della sera, si mettesse a spostare i mobili.
Indignata, di sforzò di avere pazienza dicendosi che sicuramente da lì a poco, quello che lei considerava quasi un frastuono, sarebbe cessato.
Si ripromise, non volendo alzarsi per andare a rimproverare quegli incivili come tante altre volte aveva fatto, di rimandare all’indomani e con calma la sua rimostranza, a patto che quelli cessassero, subito! di fare quel baccano.
Niente da fare, anzi, il rumore aumentò, ora si sentivano anche delle urla: era troppo! La classica goccia che fa traboccare il vaso.
L’indignazione si trasformò in rabbia, mettendo a dura prova le coronarie dell’anziana signora che, a passo di carica, si avviò verso l’appartamento attiguo, ben decisa a far smettere quel bailamme.
Lo spettacolo che le si presentò una volta affacciatasi alla porta dell’appartamento fu a dir poco sconcertante, per non dire raccapricciante secondo i suoi schemi di pensiero.
Un uomo con la faccia da furetto era disteso a terra con il braccio destro piegato a un angolo strano, aveva la bocca aperta, ma da cui non usciva nessun suono, fissava attonito, non si capiva se per il dolore, un coltello la cui lama spezzata era piantata nel pavimento di legno e il manico di avorio intarsiato poco distante con il moncone rimasto.
Un altro uomo molto grosso saltellava per la stanza, molto probabilmente era la causa dei tonfi sentiti ed era anche l’autore delle urla che l’avevano fatta imbufalire; costui teneva la mano all’altezza dell’orecchio destro, fra le cui dita incapaci di contenerlo, colava un abbondante flusso di sangue.
Abbassando gli occhi l’anziana vide una cosa che le procurò un conato di vomito e solo il terrore che provava le impedì di dargli libero sfogo.
Per terra, vicino al coltello giaceva un orecchio, lordo di sangue e con i bordi frastagliati come se fosse stato strappato a morsi.
A completare la scena vide i suoi vicini addossati alla parete  impauriti e sgomenti, osservavano un ragazzo che strapazzava un ometto grassottello al cui viso si poteva benissimo adattare l’espressione: “verde di terrore”, dal mento del diciottenne colava la stessa sostanza rossa che fuoriusciva dalla testa dell’omone saltellante.
Fu troppo, la signora Lentile scappò, percorse il pianerottolo alla massima velocità consentitale dalle gambe artritiche urlando: “Aiuto, è arrivata la fine del mondo, ci sono i mostri, aiuto!!”.
Nell’appartamento Jego, tenendo Genko per il collo e con la bocca imbrattata dal sangue di Frozen, stava parlando, le sue parole sibilanti sembravano proiettili sparati in viso all’uomo: “Tu, non permetterti più di presentarti qui, hai capito?!?” il poveretto poté solo annuire con il capo, il suo colore da verde si stava tramutando in un bel viola acceso per la mancanza d’aria.
“Jego, lascialo!” la voce di Nora, che per la tensione era addirittura in falsetto, sembrò calmarlo e allentò di poco la presa permettendo all’altro di respirare, ma continuando a sbatacchiarlo continuò: “Se lo fai, io lo verrò a sapere e non ci sarà più nessuno a salvare te e questi due buffoni, per me sarà un piacere strappare il cuore a morsi a te e a loro, hai capito?!?”.
Genko con il terrore dipinto sulla faccia assentì per la seconda volta, ma questo non fermò Jego che terminò la sua minaccia: “Lo stesso vale se vengo a sapere che hai preteso anche solo un soldo da questo mio amico o da chiunque altro; ti assicuro che ugualmente ti verrò a cercare, inizierò con lo staccarti le orecchie e non una sola come ho fatto con il tuo fantoccio, poi passerò al naso, alla lingua e per finire, quando avrai sofferto abbastanza sarò clemente e porrò fine alla tua agonia strappandoti il cuore, ti è tutto chiaro?!?” al terzo segno d’assenso concluse: “Ora vattene pezzente e portati dietro questi due topi di fogna, ma imprimiti bene la mia faccia in quella mente bacata perché ricorda: la notte è fatta di mille ombre e una di quelle potrei essere io” ciò detto lasciò andare l’ometto che si afflosciò sul pavimento.
“Via, fuori di qui!” l’esortazione ebbe l’effetto di far rialzare l’uomo che aiutò Montero sorreggendolo per il braccio ancora buono e con l’altra mano guidare Frozen che continuava a lamentarsi, per guadagnare l’uscita più in fretta possibile.
Nora e Alfred attoniti, erano rimasti a bocca aperta e non avevano pronunciato una sola parola, se si eccettua l’urlo di lei che aveva impedito a Jego di terminare in anticipo ciò che aveva minacciato di fare.
“Avresti potuto ammazzarlo” disse Alfred con un filo di voce ritrovata, la sua impressione dell’aura animale emanata da quello strano personaggio era confermata dagli ultimi eventi.
”Quella era l’idea” rispose secco Jego che non dava segno di stanchezza né di tensione; vivere con i lupi gli aveva insegnato a essere freddo e determinato, quando per un fratello o personalmente c’era il rischio di morte non si poteva cedere al sentimentalismo, occorreva essere spietati con gli avversari.
“Ti saresti rovinato” ma come risposta ottenne solo una noncurante alzata di spalle.
“Jego, ti ringrazio!” disse Nora con riconoscenza appoggiando una mano sul suo braccio.
“Nessun ringraziamento, sei o non sei la mia più cara e vecchia amica?” “Certo!” fu la risposta radiosa e: “Se possiamo fare qualcosa per te, diccelo senza problemi”.
“Due cose” alzando indice e medio ed enumerandole con l’altra mano “La prima: cosa devo dire ai tuoi genitori? La seconda: dove posso lavarmi e cambiarmi?”.
Nora accolse le richieste con una risata: “Jego, sei impossibile!” e gli occhi le brillavano di felicità.
Anche Alfred, sorrise e si apprestò a fornire una delle sue camicie mentre indicava la porta della stanza da bagno.
Al suo ritorno, lavato e cambiato guardò la sua amica con fare interrogativo, gli mancava una risposta che venne immediata: “Dimentica quello che ti ho detto stamane, mi affido al tuo buon senso per descrivere loro la mia condizione” non ebbe bisogno di proseguire perché nel frattempo si era avvicinata ad Alfred e lo aveva cinto in un dolce abbraccio, prontamente ricambiata.

 

Ritorno

L’odore della Terra di Mezzo era inebriante e Jego si ritrovò ad aspirarla a pieni polmoni quasi volesse ubriacarsi con quel profumo.
Era a casa, non vedeva l’ora di salire sulla sua collina e di sedersi sotto il portico, ma c’era un compito penoso da portare a termine.
Bussò alla porta del fabbro, gli fu aperto così velocemente dalla mamma di Nora che Jego ebbe l’impressione fosse rimasta dietro la porta da quando era partito, in attesa di buone notizie.
Dietro lei apparve anche il marito, i loro occhi erano appannati dalla delusione di vederlo da solo sulla soglia di quella casa, pronta ad accogliere il ritorno della loro figliola.
“Posso entrare?” fu la richiesta.
“A fare che, se non a dirci che non vedremo più la nostra bambina?” nonostante fosse affranto l’uomo non riusciva a essere gentile, ci pensò la moglie, come sempre, a rabbonirlo e zittirlo invitando Jego che era rimasto muto, contrariamente al suo carattere, all’aggressione verbale.
“Ma certo, accomodati ragazzo!” facendosi da parte per lasciarlo entrare.
Sedendosi sulla sedia che gli fu messa a disposizione, iniziò il suo racconto: “Vostra figlia è viva e vegeta e sta molto bene, anzi di più che molto bene” vide i loro visi distendersi e continuò per anticipare le inevitabili domande: “Non tornerà qui, per il momento, ha trovato un compagno che l’ama, che l’adora e lei è felice con lui”.
Il fabbro non gli permise di proseguire e sebbene fosse visibilmente sollevato disse con una punta di rabbia: “Così va contro tutte le tradizioni, qui c’erano tanti giovani che sarebbero stati felici di trattarla nello stesso modo!”.
“Il punto è proprio questo, pur condividendo il rispetto per le tradizioni, non poteva adeguarsi e…” alzò una mano per fermare le obiezioni che per certo sarebbero state scatenate dalle sue parole.
“Nora è una persona con una capacità decisionale propria, costringerla a fare ciò che si è sempre fatto sarebbe stato come tarpare le ali a un uccello per impedirgli di volare e tenerlo sempre con sé, l’avreste obbligata a vivere una vita che, per quanto agiata serena e tranquilla, l’avrebbe resa infelice”.
Vide un barlume di comprensione negli occhi di suo padre che sopra ogni cosa voleva il meglio per la sua bambina.
La moglie più pratica, intervenne: “Ma mi assicuri che sta proprio bene, che non corre nessun pericolo?” alla domanda Jego sorrise, ricordando la burrasca di cui era stato artefice.
Vedendo che il sorriso veniva erroneamente interpretato come una conferma, si sentì in dovere di aggiungere: “Lo giuro sul mio onore, anche perché mi sono impegnato personalmente a far sì che la sua felicità e sicurezza siano durature” altro sorriso al ricordo del terrore di Genko e dei suoi scagnozzi.
Accadde una cosa che lo spiazzò un po’: il padre si alzò, gli strinse la mano e con con gli occhi lucidi lo ringraziò; la madre più espansiva lo abbracciò e gli disse: “Mio caro, hai riportato la pace nel mio cuore, questa casa sarà sempre aperta per te e ogni volta che verrai, sarai trattato come un figlio, te lo giuro!” non riuscì a proseguire per la commozione che sfociò in un un pianto dirotto, questa volta di felicità e non di dolore.

 

Sotto il portico al tramonto, Jego stava considerando gli ultimi avvenimenti e, osservando come il crepuscolo stesse progressivamente impadronendosi della luce del sole, gli venne da fare il paragone fra la vita nella Terra di Mezzo e il mondo esterno, in questi pochi momenti visibili uno all’altro.
Una tristezza infinita lo colse, l’immobilità di quel luogo fatato non permetteva nessuna crescita, il cambiamento era visto come un nemico pericoloso di cui diffidare perché avrebbe sicuramente confuso le menti, rendendo incerti i cittadini e l’incertezza, si sa, è l’origine del caos, della disgregazione.
Il dubbio di aver sbagliato ad andarsene la prima volta “dando il cattivo esempio”, cosa di cui l’aveva accusato il connestabile all’inizio di questa avventura, peggiorando poi le cose tornando per ben due volte, gli attanagliava il cuore.
Benché immerso nei suoi lugubri pensieri, grazie ai sensi affinati dai continui pericoli in cui si era sempre tuffato fino al collo, percepì un movimento furtivo all’angolo della casa, insospettito si alzò e si diresse velocemente in quella direzione, ci mise un paio di secondi, ma furono sufficienti per acchiappare un monello per il fondo dei pantaloni, mentre questi cercava di darsi a una fuga precipitosa.
“Ehi che fai in giro a quest’ora? Dovresti essere già a letto! Lo sanno i tuoi genitori che stai bighellonando invece di fare quello che dovresti fare e cioè dormire?”
“Volevo vederla signor Jego” la vocina era flebile e tremante di paura.
“Oh, questa è bella e perché mai, di grazia, volevi vedermi? Non tremare, non ti mangio, stai tranquillo!”
“Lo so signore, lei è un eroe, non può farmi del male!”
Esterrefatto Jego a momenti mollò la presa.
“Se ti lascio andare, prometti di non scappare e di spiegarmi cosa significa quello che hai detto?”
“Certo, lo giuro signor Jego!”
“Primo io non sono ‘il signor Jego’, sono Jego e basta, poi non hai bisogno di giurare, mi basta la tua parola d’onore”
“Giu… Parola d’onore Jego” la voce non tremava più e sulle piccole labbra era apparso un sorriso d’orgoglio misto a un evidente sollievo.
“Così va meglio! Cos’è questa storia dell’eroe?”
“Lei…” “Tu” “Tu sei andato via due volte e due volte sei tornato, l’esterno non ti ha mangiato, solo gli eroi sono capaci di fare questo, anch’io vorrei essere come te e pensavo che guardandola… ti, avrei imparato come si fa”.
“Perché vorresti essere come me?”
“Per andare all’esterno e tornare così nessuno dei miei amici mi potrà prendere in giro e avranno tutti paura di me come ora hanno paura di lei… tu”.
“Solo per questo?”
“Certo, quando uno è un eroe nessuno gli attraversa la strada!” gonfiando il piccolo petto e assumendo un’aria marziale.
Trattenendosi dallo scoppiare in una risata, Jego scuotendo la testa e accennando un sorriso, si sedette per terra così da guardare il monello negli occhi: “Ascolta bene ciò che ti dico: non devi farlo perché gli altri abbiano paura di te, ma perché senti il fuoco qui e qui” indicando il cuore e la testa del piccolo.
Un velo d’incomprensione velò gli occhi sgranati, era un concetto troppo difficile e Jego pazientemente cercò di spiegarsi meglio: “Stai crescendo e come ti sentiresti se qualcuno ti costringesse a indossare gli abiti di tuo fratello più piccolo?”
“Male, non li vorrei, ma nessuno può obbligarmi a mettere dei vestiti che mi stanno stretti!”
“Ecco, questo è ciò di cui parlavo” mentre vedeva la fiamma del ribelle in quegli occhioni.
“Allora è così facile essere eroi? Basta rifiutarsi di fare quello che non vuoi?”
“Calma, questo è l’inizio, il resto viene dopo ed è esercizio, equilibrio interiore, determinatezza, onestà e soprattutto rispetto per se stessi e gli altri, per ultimo ma non meno importante, devi saper fare delle scelte, puoi rimanere qui e non uscire mai, se pensi che questa sia la cosa migliore per te, oppure puoi andare fuori e ritornare solo se lo vuoi, se senti che questa terra con tutti i suoi difetti, è la tua terra, il luogo in cui, nonostante quello che tu possa essere diventato, ti rappresenta, il luogo in cui ci sono le tue radici.”
“Per l’esercizio lei…tu mi daresti delle lezioni?”
“Se i tuoi genitori sono d’accordo e ti danno il permesso, puoi venire quando vuoi”.
“Grazie Sig… grazie Jego” e con una piccola corsa felice sparì nel buio.
“Grazie a te, piccolo amico, parlando a te ho dipanato i miei dubbi, ora la notte è più bella” ma nessuno poteva sentirlo, aveva parlato solo alle stelle.
Si mosse per rientrare quando una voce lo bloccò: “Non cambierai mai, continui a dare il cattivo esempio, continui a istigare e per di più lo fai proprio con mio figlio!”
Dall’altro angolo della casa apparve il connestabile che alzò una mano, memore delle reazioni che poteva scatenare, per impedire che il destinatario dell’accusa replicasse: “Lasciami finire, fino a questa sera ti ho considerato un nemico, un pericolo per la comunità; ti ho sentito parlare con lui e ho anche sentito quello che hai detto quando lui non poteva più sentirti”.
“Allora?” il tono era quieto.
“Allora devo dire che sei riuscito più tu, nello stesso tempo che ci vuole a bere una birra, a infondere più concetti in quella testolina di quanto possa aver fatto io in tutti gli anni da quando a iniziato a camminare e solo io so quanto ci abbia provato!” il sospiro emesso da quell’uomo tutto d’un pezzo, quasi commosse Jego.
“Ho solo detto quello che pensavo!”
“Lo so, ho sempre pensato che i tuoi principi e i miei fossero contrapposti, due facce della stessa medaglia che pur facendo parte dello stesso insieme non potranno mai incontrarsi, invece ora mi accorgo che sono gli stessi, ma applicati in due modi diversi.”
S’interruppe producendo quello che Jego non si sarebbe mai aspettato di vedere: il connestabile gli stava sorridendo e stava dicendogli “Tutto questo parlare mi ha messo un gran sete, non avresti una birra per un povero vecchio affaticato dal far rotolare parole su parole?”
“Certo, molto volentieri” entrò in casa e subito dopo ne uscì con due boccali di terracotta da cui traboccava una candida schiuma.
Seduti sulla stessa panca, con il viso rivolto alle stelle dopo il doveroso silenzio per gustare i primi sorsi di birra, il connestabile esclamò: ”Tu sei il futuro, Jego”, la risposta che ottenne fu l’indicazione dell’angolo da cui era sparito il bambino, completata da: “Non io, lui”.
“Hai proprio ragione!”
Nella notte silente si sentì un suono: due boccali che cozzavano uno contro l’altro.

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continua…

 

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