Jego – La saga – Agguati (Seconda parte)

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Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire

 

 

Jego e Yul tornarono da dove erano venuti.
Fren e Solin abbracciavano il tronco di un grosso albero, ognuno con i polsi legati a quelli dell’altro, davano il volto al fusto con la bocca appoggiata alla corteccia, imbavagliati con un pugno di foglie e con il collo circondato da un ramo flessibile e spinoso le cui spine erano penetrate appena sotto la pelle, se uno dei due si fosse mosso, anche solo per sputare lo stoppaccio di foglie che gli riempiva la bocca, avrebbe iniziato a garrotare l’altro che di conseguenza avrebbe reagito; Jego con la solita voce gelida aveva descritto loro la situazione aggiungendo “Se state buoni e in silenzio ve la caverete, altrimenti…” pur lasciando in sospeso la frase il seguito era chiaro e ottenne due mugugni di risposta di accettazione e di comprensione.

Con Yul di guardia, Jego liberò i due e si rivolse loro con la voce più dura possibile:

“Allora avete ben compreso cosa ho detto? Dovete lasciare la regione, non andate nella città universitaria, cambiate completamente vita e posti dove vivere, questa è stata l’ultima occasione per rimanere vivi da queste parti. Io sono un abitante della Terra di Mezzo, che sta fra cielo e terra, a ogni tramonto vedo quaggiù e se circolate ancora nella regione o nella città o qui, io vi vedrò, vi assicuro, basterà un piccolo cenno perché diventiate un lauto pasto per lui” indicando Yul, poi proseguì: “Ora levatevi dai piedi e guai a voi se vi azzardate a passare vicini all’insediamento. Ci siamo intesi?”.

Sputando le foglie che avevano ancora in bocca i due assentirono con grandi cenni del capo e con voce impastata:

“Si signore, ce ne andremo e non ci vedrete più, grazie signore”

Yul emise un ringhio snudando le zanne e avanzando di qualche passo, i due in un attimo sparirono dalla vista, correndo a perdifiato nella direzione contraria all’insediamento per allontanarsi il più possibile dall’incubo appena vissuto.
Alla vista della fuga precipitosa Jego e Yul si esibirono in una serie di ululati di soddisfazione e di vittoria.

 


 

Nel dormitorio Crowler stava raccontando la sua avventura a tutti quelli che lo circondavano, li aveva svegliati e ora nella sua concitazione parlava affannosamente descrivendo ciò che era successo, mentre parlava si sentirono gli ululati provenienti dalla foresta, tutti si zittirono, dopo un attimo di silenzio che gravò su di loro come una cappa di piombo, Crowler pronunciò la frase che nessuno osava dire: “Hanno terminato il pasto, se li sono mangiati”.
Nessuno aprì più bocca, tornarono alle loro brande silenziosamente, ognuno consapevole che non avrebbe più ripreso il sonno.

La luce dell’alba del quinto giorno illuminava il campo quando Gamile dopo la notte insonne – gli ululati l’avevano tenuto sveglio interpretandoli, come i suoi uomini, la fine del pasto a base dei due malcapitati di ronda spariti – attraversò lo spiazzo per dirigersi alla baracca della mensa.
Occhi pesti, profonde rughe gli segnavano il viso quando si presentò agli uomini seduti ai tavoli per la colazione.
Interdetto rimase sulla soglia poi con voce stanca chiese:
“Dove sono gli altri?”
“Andati” gli fu risposto.
“Andati dove?” nella speranza di sentirsi dire che gli assenti erano in giro a recuperare il resto della mandria.
“Via spariti” altra laconica risposta.
“Come spariti? Via dove? Maledetti pusillanimi!” il furore stava facendo pulsare le vene alle tempie di Gamile che cercando di riprendersi proseguì: “Quanti in tutto?”
“Quattordici”
Gamile rimase a bocca aperta facendo mentalmente la conta, sei prima, due quelli di ronda, quattordici fuggiti quella stessa notte, ventidue uomini, più della metà della forza lavoro di cui cinque giorni prima disponeva, se poi includeva Trank che terrorizzato non si muoveva dalla branda e Malvais con entrambe le braccia distrutte si arrivava a ventiquattro.
Ingollando grandi boccate d’aria, voltò le spalle e si diresse quasi correndo verso il suo alloggio.

Il quinto giorno trascorse con la tensione che gravava nell’aria, gli uomini mugugnavano indispettiti, incolleriti e impauriti.
Gamile aveva fatto chiudere il cancello con quattro grosse catene, aveva mostrato di mettersi in tasca le chiavi dei lucchetti poi aveva arringato gli uomini rimasti: “Nessuno potrà entrare, ma soprattutto nessuno potrà uscire, sgattaiolare via con la coda…” il riferimento all’appendice animale, sapendo chi ci fosse fuori gli fece venire un piccolo brivido, ma si riprese immediatamente: “la coda fra le gambe come tante femminucce impaurite per un nonnulla”.
Uno degli uomini ebbe l’ardire di replicare: “Quello che c’è la fuori, signor Gamile non è un nonnulla”.
Guardandolo con occhi che lampeggiavano di rabbia Gamile gli chiese:”Qual’è il tuo nome?”
“Maner, signor Gamile”
Fissandolo trucemente Gamile esclamò puntandogli l’indice contro: “Bene Maner, tu farai il turno di guardia al cancello da mezzanotte alle sei e… se qualcun altro mancasse domattina, il primo a rimetterci saresti tu”.
“Ma signor Gamile…”
“Niente ma!”
Ciò detto rientrò nel suo alloggio anche per nascondere il tremore che lo agitava e che non era dovuto solo all’ira provata per la situazione.

 


 

Nell’oscurità della notte due figure silenziose si stavano aggirando all’esterno dell’insediamento.
Jego e Yul giunti sul retro, quello meno sorvegliato per la mancanza di uomini e con i pochi rimasti chiusi all’interno delle baracche, stavano confabulando fra loro nel linguaggio dei lupi.
Yul: “Cosa hai intenzione di fare Fratello?”
Jego: “Di creare un incentivo per farli sloggiare tutti”.
“Come pensi di fare?”
Sogghignando e scoprendo i denti Jego rispose: “Con un caldo invito”.
“Non capisco” replicò Yul.
“Tu vai là” Jego indicò la macchia di alberi in cima all’altura “Sarai al sicuro.”
“E tu?”
“Fra poco arrivo”.

Mentre il lupo si dirigeva nella direzione indicata Jego indietreggiò, prese la rincorsa e appoggiando un piede sulla parete del recinto utilizzò l’appoggio per darsi uno slancio verso l’alto e appendersi al bordo, ondeggiando un po’ di lato, arrivato all’oscillazione soddisfacente, con uno scatto di reni agganciò con un piede il bordo ritrovandosi parallelo alla parete, scavalcare e scivolare dalla parte opposta fu semplice, atterrando silenziosamente si ritrovò all’interno del complesso.
Furtivo iniziò ad aggirarsi fra le baracche facendosi guidare dal fiuto finché l’odore intenso del carburante lo guidò a quella adibita a rimessa dei mezzi da lavoro.
Macchine, bulldozer e camion erano posteggiati al centro del capannone; la pavimentazione in terra battuta era abbondantemente macchiata da larghe chiazze d’olio perso dai veicoli, due lampade appese al soffitto emanavano un alone di luce fioca ma che permetteva di muoversi senza andare a sbattere contro mezzi parcheggiati e gli ostacoli disseminati per l’ambiente.

Uno dei lati era occupato da una lunga serie di banchi di lavoro sui quali erano appoggiati attrezzi e vari pezzi di motore, quello opposto ospitava una lunga sequenza di fusti emananti l’odore che l’aveva guidato fin lì.
Si diresse a uno dei banchi e cercò quello che gli serviva, trovato un grosso cacciavite attraversò il locale per raggiungere l’ultimo fusto in fondo alla sequenza.
Il barile gli arrivava oltre alla vita e aveva il diametro pari alla lunghezza del suo braccio.
Tentò di smuoverlo ma sembrava ancorato al terreno e per quanti sforzi facesse, quello non si spostò nemmeno di un millimetro.
Interruppe i tentativi cercando una soluzione, la trovò in un lungo leva-copertoni da camion.

Tornò al fusto e con il cacciavite scavò una piccola fossa alla base del grosso cilindro.
Tornò al banco prelevò un blocco di metallo grosso all’incirca come una scatola da scarpe, tornò al fusto e posizionò il pezzo a poca distanza dietro la fossetta.
Soddisfatto del lavoro, con tutta la forza delle braccia e impugnando il cacciavite con due mani lo piantò nel bordo superiore dalla parte opposta in cui aveva scavato la buchetta.
Facendo forza riuscì a produrre uno squarcio soddisfacentemente ampio nel coperchio.
Per completare l’opera infilò la punta del leva-copertoni nella buchetta sotto il bordo del barile e lo appoggiò sul blocco di metallo poco più indietro.
Fino ad allora si era mosso con circospezione e nel quasi totale silenzio se non si considera lo schiocco della lama del cacciavite contro il coperchio del bidone, ma ora veniva la parte difficile.
Saltò a piedi uniti sull’estremità libera del leva-copertoni che per effetto di leva prodotta dal fulcro costituito dal blocco di metallo, fece oscillare in avanti il fusto ma non fu sufficiente a rovesciarlo.

Frustrato si riposizionò in piedi sull’estremità del leva-copertoni, appoggiò entrambi i palmi alla parete e poi cercando di non perdere l’equilibrio iniziò a saltellare furiosamente flettendo e distendendo le gambe per aumentare l’oscillazione in avanti e bloccare quella di ritorno del barile che così sollecitato finalmente si rovesciò iniziando a spandere il liquido che conteneva, in parte fu assorbito dalla terra battuta ma il resto divenne una chiazza che si allungò fino ad arrivare sotto il serbatoio dell’ultimo camion della fila.
Aveva pochissimo tempo per agire, sapeva che il tonfo probabilmente avrebbe destato i sospetti e qualcuno sarebbe arrivato a indagare.

Prese il leva-copertoni, lo appoggiò nella pozza e iniziò a sfregare e a colpire con più forza possibile la sua superficie con la lama del cacciavite, alcune scintille sprizzarono e caddero nel liquido incendiandolo.
Il fuoco iniziò a serpeggiare, ma prima che fosse arrivato sotto il camion, Jego era già alla porta di ingresso, stava per uscire quando sentì delle voci concitate provenire dall’esterno, si accucciò nell’ombra e attese.
Il fuoco nel frattempo aveva iniziato a lambire il serbatoio del camion e rischiarava l’ambiente, la porta si aprì e due uomini irruppero oltre la soglia; uno di loro vedendo lo scenario fece in tempo a dire: “Ma che diavolo…” prima di essere scagliato a terra dal compagno sul quale Jego si era catapultato con forza balzando fuori dal suo nascondiglio, mentre i due uomini in un groviglio di braccia e gambe cadevano, il ragazzo corse al punto da cui era entrato e con la stessa manovra adottata per entrare, in un attimo riuscì a essere fuori dal complesso, continuando a correre raggiunse il fratello nella macchia di alberi sull’altura.
Il serbatoio del camion esplose con un boato e sparse il liquido infiammato sugli altri automezzi e sui fusti.
Gli uomini correvano per il campo gridando, ma nessuno osava avvicinarsi al capannone, i due gettati a terra da Jego dopo il primo momento di sorpresa si erano rialzati ed erano corsi via il più velocemente possibile senza vedere la figura che scavalcava la palizzata.

 


 

“Signor Gamile, signor Gamile presto le chiavi, dobbiamo andarcene”.
Non erano stati solo i furiosi colpi alla porta e le urla a svegliarlo, già dalla prima esplosione si era alzato intontito dal letto, rivestito in fretta e furia e si stava avviando per accertarsi di cosa avesse creato quella confusione.
Aprendo l’uscio il panorama che si presentò ai suoi occhi era terrificante, nel capannone degli automezzi completamente in fiamme le esplosioni continuavano a susseguirsi, a ognuna di esse una fontana di fuoco si alzava verso il cielo per poi ricadere sulle altre baracche iniziando a incendiarle, uomini terrorizzati si erano assiepati al cancello e alcuni di essi stavano inutilmente cercando di scavalcarlo per poter fuggire lontano da quell’inferno.
In fretta e furia arrivò dove erano posizionate le catene, con mani tremanti iniziò a cercare di aprire i lucchetti ma non gli riusciva di infilare la chiave tanto era il terrore che lo pervadeva.
Una mano callosa, gli strappò dalle mani il mazzo, dopo poco le catene caddero permettendo ai battenti del cancello di aprirsi e agli uomini di fuggire, Gamile poté solo seguire il gruppo che lo spingeva in avanti evitando di resistere per non finire calpestato.

Una volta giunti a distanza di sicurezza, tutti si voltarono a osservare il complesso, ormai tutte le baracche erano in fiamme e il fuoco stava lambendo la recinzione, i bovini ricoverati nel recinto appena risistemato, per il terrore l’avevano di nuovo abbattuto e ora si stavano disperdendo verso le alture.
La luce rossastra dell’incendio illuminava il cielo a giorno e Gamile crollato a terra, osservava il suo fallimento.
Con un impeto di orgoglio si alzò in piedi rivolgendosi agli uomini dicendo: “Ricostruiremo tutto, riedificheremo le baracche, la città sarà costruita, non sarà un incendio a fermarci, siamo ancora vivi, ricominceremo daccapo”.
Uno degli uomini si fece avanti e guardandolo con commiserazione replicò: “Se vuol farlo lo farà da solo perché noi qui non ci metteremo più piede, vero ragazzi?” voltandosi verso gli uomini alle sue spalle radunati in circolo.
Tutti assentirono e poi si allontanarono prendendo direzioni diverse, Gamile rimasto solo si accasciò di nuovo a terra, si portò le mani al viso e non riuscendo a resistere, allargando le dita stette a osservare la devastazione di quello che avrebbe dovuto diventare il suo piccolo impero.

 


 

Fra gli alberi Jego e Yul osservavano la scena e fu il lupo a parlare per primo:
“Il Branco è vendicato”.
Jego gli pose una mano sul collo accarezzando il folto manto grigio e rispose:
“Sì fratello, è ora di tornare a casa”.
Fianco a fianco si avviarono, la Terra di Mezzo li aspettava.

 

…precedente

continua…

 

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