Jego – La saga – Agguati (Prima parte)

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Quando l’avviso non basta più

 

 

 

Il sole basso all’orizzonte, con strali di luce illuminava la palizzata che circondava l’insediamento; nella luce del tramonto tutto assumeva una sfumatura simile a quella prodotta dalle fiamme sulle pareti del camino.
Il terzo giorno dall’ultimatum di Jego, dal limitare della foresta due paia di occhi seguivano i movimenti degli uomini che all’interno passavano da una baracca all’altra oppure bighellonavano oppure ancora stavano fumando oziosamente seduti su panche o casse disseminate qua e là.

All’esterno invece un terzetto percorreva il perimetro, includendo i recinti degli armenti, in un monotono giro di ronda con passi quasi sempre uguali che però diventavano più strascicati verso la fine del turno.
Durante i giorni precedenti tutte le tagliole erano state eliminate dai sentieri battuti, le squadre di ricerca che per quattro ore al giorno battevano la foresta partendo dai quattro punti cardinali, non avrebbero corso il pericolo che qualcuno dei componenti rimanesse azzoppato mentre convergevano al centro, luogo di ritrovo e che per quel giorno sanciva la fine dell’esplorazione in cerca dei due.

Jego e Yul erano riusciti a evitare di essere scoperti grazie all’istinto di uno e alla pianificazione dell’altro, l’unico momento di pericolo era costituito dal momento in cui la squadra che avevano deciso di seguire passava loro a fianco.
Per esplorare la zona assegnata, gli uomini si disponevano a ventaglio e solo a portata di voce fra uno e l’altro, il ragazzo e il lupo erano nascosti nel sottobosco e negli spazi vuoti fra gli uomini, l’odore corporale emanato e lo strepitio che la squadra faceva, costituivano l’allarme anticipato per la mimetizzazione e la disposizione così se uno dei due veniva scoperto l’altro averebbe avuto il tempo di intervenire, abbattere l’uomo che poteva dare l’allarme e fuggire in tempo prima dell’intervento degli altri componenti.

I giorni passavano e la frustrazione di Gamile aumentava: dopo tre giorni nessun risultato raggiunto, sia le ronde notturne che quelle diurne non avevano avvistato niente di sospetto intorno alla palizzata o ai recinti e le squadre di ricerca erano sempre tornate a mani vuote stringendosi nelle spalle per esprimere l’infruttuosità del lavoro.
Non era solo il rosso del tramonto che colorava il viso di Gamile, bensì la rabbia repressa, una vena pulsava sulla tempia e l’espressione era torva, si stava chiedendo se l’ultimatum ricevuto attraverso Trank terrorizzato e Malvais con il braccio destro spezzato e il sinistro attaccato solo per un lembo di pelle, non fosse stato un evento estemporaneo, senza nessun seguito, un bluff per fargli ritardare i lavori e sborsare più quattrini per un pericolo inesistente, quei due sembravano spariti dalla faccia della terra.

Ciò nonostante, le parole che suo fratello aveva pronunciato nella telefonata continuavano a ronzargli nella testa e lui non riusciva a calmarsi, anzi il mancato esito dei controlli e delle ricerche gli creava la stessa sensazione che si prova in quel momento chiamato: “la calma prima della tempesta”.
All’ennesimo cambio della ronda esterna, Gamile si avvicinò agli uomini che rientravano.
“Allora?”
“Niente signor Gamile” rispose il capo pattuglia, poi continuò:
“Là fuori sembra tutto tranquillo, secondo me è stato un fuoco di paglia, non abbiamo notato nemmeno un’orma sul terreno a parte le nostre, non un ramoscello spezzato, non foglie smosse e vi assicuro che in tutti i giri intorno alla palizzata e ai recinti abbiamo imparato il terreno a memoria, anche il più piccolo particolare non ci sarebbe sfuggito, ora se permettete metto in libertà gli uomini e andiamo a cena”.
“Andate, andate!” con un gesto di stizza congedò l’uomo, poi ci ripensò e lo richiamò.
“Quando parte la prossima ronda?”
L’altro che si stava già avviando si fermò e girandosi rispose: “Fra mezz’ora signor Gamile quando quelli comandati per il prossimo turno avranno finito di cenare”.
“Quindi per mezz’ora là fuori non ci sarà nessuno!” il turbamento continuava ad agitare Gamile.
L’altro ancora si strinse nelle spalle: “Che volete succeda in mezz’ora?”
“Forse avete ragione, andate pure” congedando definitivamente l’uomo, ma l’apprensione rimaneva e mugugnando fra sé si avviò al suo alloggio: “Già cosa può succedere in mezz’ora” sempre più sconfortato, varcata la soglia, si sedette sulla poltrona e rimase in attesa con gli occhi sbarrati nel buio e con le orecchie tese a percepire i singoli rumori che lo circondavano.

 


 

Emettendo un suono basso, inaudibile a orecchio umano, ma non a quello di un lupo, Jego iniziò a muoversi verso i recinti.
Yul obbediente si accucciò dietro i cespugli che fino allora avevano costituito il loro nascondiglio.
Jego l’aveva spiegato: “Yul il tuo odore farebbe impazzire le bestie e l’ultima cosa che vogliamo ora è il baccano”.
L’idea era venuta nei tre giorni di osservazione: al tramonto la ronda terminava il turno, quello successivo iniziava mezz’ora dopo per avere il cambio immediato a mezzanotte che a sua volta avrebbe avuto il cambio immediato alle sei del mattino e così via fino al nuovo tramonto; quella mezz’ora era l’unico momento buono per mettere in pratica quello che il ragazzo aveva in mente.
Si era cosparso la pelle e gli abiti con l’humus del sottobosco, non solo per mimetizzarsi, ma anche per confondere il proprio odore, i bovini forse non avrebbero saputo distinguere un odore corporale sconosciuto rispetto a quelli dei soliti guardiani che li accudivano, ma la prudenza non è mai troppa.
Silenzioso e guardingo si avvicinò ai recinti, si muoveva così lentamente che solo un osservatore attento e munito di una luce avrebbe potuto individuare il suo movimento fra le ombre della sera.

 


 

Un suono tambureggiante lo fece sobbalzare, in un attimo alzatosi dalla poltrona si precipitò fuori trovandosi attorniato da tutti gli uomini che riversandosi fuori dalle baracche si erano radunati nello spiazzo al centro e si stavano avviando verso il cancello che dava all’esterno.
Sballottato dalla massa e assordato dal gran vociare che non riusciva però a coprire il frastuono proveniente dall’esterno, Gamile si ritrovò a ridosso dell’inferriata e con sgomento osservò la moltitudine di bovini che galoppava fuori dai recinti mugghiando e facendo tremare il terreno.
Non solo i cancelli erano spalancati ma i recinti erano stati abbattuti dalle bestie che terrorizzate da Yul avevano cercato scampo nella fuga.

Quando Jego ebbe aperto i cancelli, con un fischio basso e modulato aveva chiamato il lupo che veloce si era portato fra le bestie azzannando qualche zampa e gettando nel panico tutta la mandria, compiuta l’opera prefissata si erano ritirati altrettanto velocemente per non essere calpestati.

Con le mani nei capelli Gamile iniziò a urlare “Che disastro, che disastro!”
Poi rivolto agli uomini: ”Cosa aspettate? Uscite e fermateli!”
Tutti quanti con lo sguardo a terra e strusciando i piedi nella polvere rimasero in silenzio senza muoversi, uno solo, uno dei bovari che curava gli armenti, con un tono sicuro nella voce rispose: “Signor Gamile, fermare una mandria impazzita vuol dire farsi calpestare a morte, è impossibile fermarli soprattutto quando sono terrorizzati come sembrano, sarebbe come fermare con le mani un treno in corsa, lasciate che si calmino, si sparpaglieranno quando avranno fame e sete e allora potremo andare a recuperarli”.
Gamile benché fosse furente dovette ammettere le ragioni dell’uomo e rispose: “D’accordo, conoscete le bestie meglio di me, faremo così, domani organizzate il recupero mentre gli altri ricostruiranno i recinti”.

La frustrazione per l’evento appena accaduto accentuò ancora di più gli oscuri presagi che sentiva nell’anima e che gli faceva tremare i polsi, ma davanti agli uomini non doveva dimostrarsi incerto e nemmeno far capire loro quello che gli passava per la testa; a passo marziale si avviò per tornarsene al suo alloggio ostentando una sicurezza che non provava.

 


 

L’indomani dieci uomini partirono a cavallo con il compito di recuperare la mandria, proprio come Jego e Yul si aspettavano.
L’area di dispersione era così vasta che gli uomini dovettero prendere ognuno una direzione diversa.
Appostato dietro un’altura Jego osservava l’uomo che con fischi, strepiti e incitamenti stava radunando le bestie fermatesi a brucare nella depressione sottostante, non ci fu bisogno di dire a Yul cosa doveva fare, il piano stava funzionando a meraviglia.

Il grosso lupo apparve all’improvviso davanti alle prime bestie che si stavano inerpicando sulla salita.
I bovini terrorizzati fecero dietrofront gettando nella confusione quelli che li seguivano con il risultato di far dirigere tutte quante le bestie verso l’uomo che dietro loro li stava guidando.
Per non essere disarcionato e finire sotto gli zoccoli, fece scartare il cavallo di lato risalendo di poco con l’intenzione di seguire la fuga e cercare di recuperare per una seconda volta le bestie che galoppavano di nuovo verso conca in cui avevano trovato la sicurezza di buona erba e acqua fresca.

Stava per spronare al galoppo il cavallo quando una figura uscita dal nulla, con un balzo lo colpi con una spallata al torace sbilanciando lui e il cavallo che finendo a terra trascinò con se il cavaliere, l’aggressore con un’agile capriola si posizionò in piedi a poca distanza.
Mentre il cavallo scalciava per alzarsi, l’uomo benché stordito ebbe la prontezza di levare i piedi dalle staffe ben sapendo che se la cavalcatura spaventata fosse partita al galoppo l’avrebbe trascinato fra le rocce con un esito fatale.
Quando tentò di rialzarsi un piede appoggiato sulla spalla lo costrinse a rimanere disteso, guardando da sotto in su vide un ragazzo che lo sovrastava.
“Allora sei tu” furono le uniche parole che riuscì a dire.
Di rimando gli fu risposto: “Vuoi vivere?”
“Che domanda, certo che voglio vivere” ma non provava la sicurezza ostentata nella risposta mentre appoggiava una mano a terra per tentare di rialzarsi.
Un ringhio basso lo bloccò, distolse l’attenzione da Jego che con i piedi vicino alla sua testa sembrava torreggiare su di lui, ruotò la testa nella direzione da cui proveniva quel suono minaccioso e si trovò faccia a faccia con un muso pieno di cicatrici e zanne snudate visibili per il labbro superiore arricciato e fremente.
Alla vista della belva che avvicinandosi lentamente stava incombendo su di lui come una minaccia ben più grave del ragazzo che gli si era rivolto, il sangue defluì dal suo volto che si fece esangue e iniziò a balbettare cercando di ritrarsi fino a urtare con il capo contro i piedi di Jego.
“No… no… ti prego… non… voglio… morire, farò tutto quello che vuoi”
Jego ripeté la domanda: “Vuoi vivere?” la voce sembrava una fredda lama di acciaio che penetrava nella mente dell’uomo disteso a terra.
“Sì, sì, ma ti prego tienilo lontano, non farmi sbranare” quando allungò il braccio per indicare Yul sentì sul dorso della mano il fiato caldo del lupo, a quel punto il terrore prese il sopravvento, una macchia giallastra si allargò in corrispondenza dell’inguine.
“Bene, ecco cosa devi fare” furono le parole di risposta.

 


 

Al tramonto del quarto giorno un recinto era stato riattato e parte della mandria recuperata era di nuovo all’interno, ma solo quattro dei dieci uomini usciti, erano rientrati.
“Gli altri dove sono?” stava sbraitando Gamile sempre più agitato nel vedere la sua forza lavoro diminuita, preoccupato anche per l’impossibilità di gestire al meglio i turni di guardia, con sei uomini in meno avrebbe dovuto trovare incentivi più alti per ottenere la stessa sicurezza, concetto che nella sua mente iniziava a sgretolarsi, sapeva benissimo chi fossero i responsabili di ciò che gli stava accadendo e dava ormai per persi gli uomini mancanti.
L’uomo a cui si era rivolto si strinse nelle spalle: “Non lo so signor Gamile, abbiamo dovuto dividerci, ognuno di noi era solo, la mandria si è dispersa su un territorio molto vasto lassù sulle colline, tutti noi abbiamo cercato di recuperare più bestie possibili e quelle che abbiamo trovato sono quelle” indicando il recinto.

“Perché non li abbiamo uccisi, avremmo vendicato il branco” Yul nel loro linguaggio pose la domanda a Jego.
Il ragazzo fissando con affetto gli occhi gialli del lupo rispose: “Perché l’incertezza, fratello mio è più perniciosa, se li lasciamo nel dubbio la paura inizierà a serpeggiare e non ci sarà bisogno di allontanarne altri, lo faranno da soli, credimi”
“Sono umani e tu li conosci meglio di me, fratello di branco, guidami e io sarò sempre al tuo seguito”.
Jego pose una mano sul collo di Yul accompagnando il gesto da alcune parole: “Non al mio seguito, fratello, fianco a fianco”.
Gli occhi di Yul brillarono dell’antica fierezza, il corpo sembrò riprendere la robustezza e il vigore che l’avevano sempre contraddistinto e con un ringhio basso modulò un’unica parola che per Jego fu motivo di orgoglio: “Fratello!”

 


 

Alla luce delle torce ormai quasi esaurite e tenute dagli uomini davanti al cancello principale, a mezzanotte avvenne il cambio.
Il gruppo montante, con delle nuove torce uscì permettendo agli altri di andare a riposare.
Al quarto giro intorno alla palizzata, sul sentiero battuto e ribattuto dalle ronde, Fren disse al capo ronda: “Capo vado dietro quell’albero, la natura chiama”.
Crowler si bloccò e giratosi verso Fren esclamò: “Bocca grande e vescica debole?” domanda seguita dal risolino di Solin, il terzo uomo.
Fren piccato, per giustificarsi rispose: “Ho bevuto una birra in più questa sera” guardando di traverso Solin che si zittì conoscendo il carattere iracondo del collega che si stava avviando a una radura circondata da alberi a fianco del sentiero.

Con un sospiro di sollievo Fren terminò di liberarsi del liquido in eccesso.
Chiusa la cerniera fece per voltarsi e raggiungere i compagni, non ci riuscì, una morsa d’acciaio gli strinse il collo da dietro obbligandolo a rimanere con il viso rivolto all’albero.
Una mano estrasse la pistola dalla fondina alla cintura, dopo qualche momento la sentì cadere con un tonfo nel folto sottobosco.
Una voce gelida gli sussurrò all’orecchio: “Vuoi vivere?”
Fren, passato il momento di panico tentò di ribellarsi, la stretta sul collo si accentuò a tal punto da sembrargli che quelle dita volessero congiungersi stritolandogli il collo.
Per quanto potesse permettergli la stretta cercò di annuire con il capo e poi emise uno strozzato: “Sì”.
La voce all’orecchio tornò a sussurrare: “Bene, ecco cosa devi fare”.

Crowler stava diventando impaziente: “Fren… Fren… per la miseria quanto ci metti?” con un cenno impaziente della mano ordinò a Solin: “Vai a vedere se quell’impiastro ha deciso di inondare tutta la radura” l’uomo di malavoglia si inoltrò nella direzione indicata mugugnando sottovoce.
Dopo poco dall’impazienza Crowler passò alla stizza: “Per la miseria si può sapere cosa diavolo fate, state giocando a nascondino? Muovetevi abbiamo una ronda da fare!” rivolto nella direzione presa dai due.

Un leggero rumore alla sua sinistra gli fece ruotare il capo ed esclamare “Ah, era ora non stiamo gio…” le parole gli morirono in gola, a meno di un metro da lui, illuminato dalla fiaccola che teneva in mano, un lupo grigio enorme e con le zanne snudate si stava avvicinando, dimentico di essere armato, si voltò per darsela a gambe, andò a sbattere contro quello che sembrava un ragazzo, non fece in tempo a pronunciare una sola parola che un palmo aperto lo colpì in piena fronte facendolo sedere per terra semi intontito, ebbe comunque la prontezza di non lasciare la fiaccola, primo perché pensava di riuscire a tenere lontano il lupo che sentiva  avvicinarsi alle spalle e secondo per individuare il suo aggressore.
Jego si accucciò flettendo le ginocchia in modo da guardare Crowler negli occhi, quest’ultimo in un disperato tentativo di difesa fece per muovere la fiaccola indirizzandola contro il viso che gli stava davanti.

Due mascelle possenti si chiusero sul suo polso, Yul vincendo la naturale ritrosia per il fuoco, aveva chiuso le fauci sul braccio dell’uomo, le zanne avevano perforato il cuoio della giubba e gli indumenti sottostanti fermandosi alla pelle scalfendola appena.
La voce gelida come gli occhi che lo stavano fissando lo interpellò: “Vuoi che il mio amico ti spezzi il braccio? Fai un cenno con la testa o rispondi a voce, ma non fare movimenti bruschi, altrimenti rischi di diventare monco, lo sai che un lupo con un morso è in grado di spezzare e poi staccare la zampa a un alce?”
Crowler assentì con il capo pigolando un “Si”.
Divertito Jego disse: “Ah, vuoi che lui ti spezzi il braccio”.
Scuotendo la destra disperato Crowler di nuovo pigolò: “No, no, rispondevo alla seconda domanda”.
Di nuovo Jego ironico: “Non avrai paura per caso?”
“Beh” fu l’unico suono che uscì dalla bocca dell’uomo.
Jego incalzante e beffardo proseguì: ”Vuoi vivere?”.
Come risposta ebbe un convulso cenno di assenso.
“Bene ecco cosa devi fare, vai da Gamile e digli che vi mancano due giorni, domani e dopodomani per sgomberare e abbandonare tutto, se non lo farete, uno a uno sparirete come sono spariti gli altri”.
Con un po’ di coraggio Crowler chiese: “Li hai uccisi tutti?”.
La risposta fu enigmatica: “Li hai visti forse in giro?”.
Altro cenno di negazione.
“Sappi che non torneranno più e non li vedrete mai più”.
Crowler iniziò a deglutire così alacremente da fargli emettere la risposta tra suoni gorgoglianti: “Perché mi lasci andare?”.
“Sei un messaggero, fai il tuo lavoro, porta il messaggio e forse, ripeto forse, potrai sperare di campare ancora qualche anno”

Detto questo Jego e Yul scomparvero nell’ombra così come erano apparsi.
Crowler ancora seduto per terra, iniziò a ruotare la fiaccola torcendo anche il busto per assicurarsi di essere rimasto solo, si alzò tremante circondato dal buio e dal silenzio; madido di sudore, nonostante l’aria fresca della notte, si mise a correre in direzione dell’insediamento.

 


 

“Signor Gamile… signor Gamile…” le urla e colpi ripetuti sulla porta lo svegliarono di soprassalto, vestito del solo pigiama andò ad aprire la porta: “Casa c’è?” irritato e preoccupato rivolgendosi a Crowler stravolto che con il pugno alzato, stava per battere un ennesimo colpo all’uscio.
“Signor Gamile ce ne dobbiamo andare, altrimenti ci ucciderà tutti” la frase pronunciata tutta d’un fiato mentre rivoli di sudore dalla fronte gocciolavano sugli occhi e poi sulle gote senza che Crowler si preoccupasse di detergerle.
“Ma sei impazzito?” Gamile si stava infuriando.
“Dove sono gli altri due?”
“Morti”.
“Morti, tu perché sei vivo?” il sospetto stava iniziando a farsi strada nella mente, ma la preoccupazione era più forte.
“Perché venissi a dirvi che dobbiamo andarcene altrimenti faremo tutti la loro fine, questo mi ha detto”.
“Chi?” la domanda quasi sputata in faccia all’uomo che gli stava di fronte mentre la rabbia gli faceva digrignare i denti.
“Quel diavolo con il lupo”.
“Non è un diavolo, è un ragazzo e quello è un cane spelacchiato”.
Per tutta risposta, senza parlare, Crowler alzò il destro mostrando i buchi nel cuoio spesso della giacca, prodotti dalle zanne di Yul.
Gamile atterrì, sgranando gli occhi, “Per tutti i santi del Paradiso” esclamò.
“Di quelli abbiamo bisogno, signor Gamile, proprio di quelli”.
“Sciocchezze” esclamò Gamile chiudendo la porta in faccia a Crowler, fece per tornare a letto, ma un pensiero improvviso lo colse, tornò di corsa alla porta e: “Crowler” chiamò l’uomo che si stava avviando alla baracca dormitorio.
“Dica signor Gamile” rispose l’uomo fermandosi e ruotando solo il capo.
“Mi raccomando, non fate parola con nessuno di quanto è successo”.
“Va bene signor Gamile”

Gamile tornò a letto e mentre era disteso con gli occhi aperti un altro pensiero gli si affacciò alla mente: “Potrà anche non parlarne, ma otto uomini in meno sono un deterrente troppo potente, dovrò studiare qualcosa” con questa nuova angoscia cercò di chiudere gli occhi, preparandosi a un sonno agitato popolato di ragazzi, lupi, bovini in fuga e cadaveri.

 

…precedente

continua…

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